Lavoratore, mobbing, condotta ostile, isolamento, volontà esplicita, prova

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Sentenza 20 novembre 2014 – 23 gennaio 2015, n. 1258

(Presidente Macioce – Relatore De Marinis)

Svolgimento del processo

Con sentenza del 14 aprile 2011, la Corte d’Appello di Ancona confermava la decisione con cui il Tribunale di Fermo respingeva la domanda proposta da A. M. A. per conseguire il risarcimento dei danni subiti per effetto della pluralità di condotte, assunte come illecite e unitariamente qualificate come “mobbing”, poste in essere dall’Amministrazione del Comune di Santa Vittoria in Matenano.

La pronuncia discende dall’aver la Corte territoriale escluso, rispetto alla condizione di disagio ambientale avvertita dall’A. e accertata come sostanzialmente sussistente, la responsabilità dell’Ente datore, per essere quella condizione di disagio addebitata non solo in via generale a tutti i soggetti coinvolti nel rapporto e, in particolare, a chiunque si trovasse in posizione di preminenza nei suoi confronti, ma altresì senza specificarne la motivazione, così da non consentire di escluderne un diverso e giustificato fondamento motivazionale, come appare in relazione al denunciato “demansionamento, depauperamento e annientamento professionale” che sembra piuttosto conseguire da una indisponibilità della lavoratrice a collaborare nello svolgimento di compiti accessori, non smentita dall’esposizione delle ragioni concrete, che non vanno oltre la ritenuta prevaricazione, del rifiuto opposto, non potendo pertanto ritenersi assolto l’onere della prova in ordine all’addebitabilità della condotta a dolo o colpa del datore e non ad una situazione oggettiva (Ente di piccole dimensioni, con organico presumibilmente limitato tenuto a rispondere ad incombenze varie) tale situazione non sarebbe riconducibile a responsabilità del datore stesso, da escludersi anche sotto il profilo dell’inadempimento dell’obbligo di cui all’art. 2087 c.c. considerata la natura del danno allegato consistente in una affezione che rende il malato particolarmente sensibile a cause presunte ed incongrue implicando il rischio di addebitare alla condotta altrui la responsabilità di danni che sono collegati soltanto dall’immaginario del soggetto leso tanto più a fronte di fatti non tali da integrare fattori causali autonomi ed efficaci né da essere percepiti dal datore di gravità sufficiente a cagionare danno.

Per la cassazione di tale decisione ricorre A. M. A., affidando l’impugnazione ad un unico motivo, cui resiste, con controricorso, il Comune di Santa Vittoria in Matenano

Motivi della decisione

Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 2087 c.c. anche in relazione all’art. 1228 c.c., 2043 c.c. nonché il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, lamentando come la Corte territoriale, ritenute sussistenti le condotte dalla ricorrente imputate all’Ente datore, abbia illegittimamente ritenuto la necessità della prova dell’elemento psicologico della condotta medesima, in contrasto con l’art. 2087 c.c., accollandone l’onere alla dipendente, in contrasto con l’art. 2967 c.c. ed abbia incongruamente, anche perché prese in considerazione solo parzialmente, valutato sotto il profilo eziologico le condotte medesime.

Il motivo è infondato.

La ricorrente palesemente confonde l’accertamento del fatto materiale con quello della sua illiceità di cui la componente psicologica è elemento essenziale e della cui prova è certamente onerato l’attore. Va a riguardo ricordato l’orientamento consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ravvisarsi da parte del datore di lavoro comportamenti, anche protratti nel tempo, rivelatori, in modo inequivoco, di un’esplicita volontà di quest’ultimo di emarginazione del dipendente, occorrendo, pertanto dedurre e provare la ricorrenza di una pluralità di condotte, anche di diversa natura, tutte dirette (oggettivamente) all’espulsione dal contesto lavorativo, o comunque connotate da un alto tasso di vessatore,; età e prevaricazione, nonché sorrette (soggettivamente) da un intento persecutorio e tra loro intrinsecamente collegate dall’unico fine intenzionale di isolare il dipendente (v. da ultimo Cass. 6 agosto 2014, n. 17698 e Cass. 7 agosto 2013, n. 18836). Di tanto si avvede la stessa ricorrente che, con estrema disinvoltura, passa dall’affermazione della non necessità della prova dell’elemento psicologico della condotta a quella della conseguita prova della “connotazione emulativa e pretestuosa degli episodi dedotti”, con ciò evidentemente mirando ad una diversa valutazione in fatto, intento riflesso nel tentativo operato di superare, senza opporvi alcuna censura, il punto nodale dell’iter logico-giuridico seguito dalla Corte territoriale.

Secondo tal giudice una tale connotazione non poteva attribuirsi alle condotte in parola in difetto della stessa allegazione di circostanze, in particolare relative all’organizzazione del lavoro nell’Ente, tali da escludere che le condotte medesime, se non indotte dallo stesso atteggiamento non collaborativo della dipendente, come lascerebbe presumere l’eccessivo rigore del rifiuto di compiti accessori, fossero determinate da condizione oggettive non riconducibili alla responsabilità dell’Ente datore neppure sotto il profilo dell’inadempimento dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c.

Il ricorso va dunque rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 100 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15 % e accessori di legge.

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